Quali foto sono veramente “buone”?
La bravura fotografica dipende da molti fattori. La bravura nello scatto e nel cogliere l’essenza delle cose, questo aspetto lo considero al di là della tecnica un dato meramente statistico, è bravo chi sbaglia meno degli altri, chi arriva a raccontare o evocare tramite la sua fotografia. Anche i bravi sbagliano, è solo che sbagliano meno.
Un aspetto interessante delle capacità di un fotografo è quella fondamentale di saper scegliere le proprie foto e i propri lavori, fatto assolutamente non banale. Si può destreggiare la tecnica, trovarsi al momento giusto nel luogo giusto, saper cogliere quello che si ha intorno componendolo alla perfezione, ma si può sbagliare poi nello scegliere le foto, scartando probabili capolavori che magari non vedrà mai nessuno. Com’è possibile questo?
Quando scattiamo normalmente siamo condizionati positivamente da altri sensi oltre la vista: ascoltiamo cosa abbiamo intorno, sentiamo gli odori, valutiamo gli scenari a 360 gradi con differenti prospettive e cerchiamo di raccogliere l’essenza di tutto questo in un singolo fotogramma persi nei nostri pensieri. Questo condizionamento ha però un altro lato della medaglia in fase di scelta e selezione delle proprie foto.
Quando scegliamo, solitamente non vediamo solo la singola immagine di sintesi, ma rimaniamo condizionati dalle sensazioni e dal contesto in fase di scatto. Una “situazione fantastica” non necessariamente implica, agli occhi degli altri, una “foto fantastica” se non siamo riusciti a sintetizzare in questa la realtà che abbiamo percepito. Altresì foto che a noi possono sembrare più banali, magari perché non abbiamo percepito in maniera cosciente il divenire del reale e siamo delusi per questo, agli occhi di altri osservatori possono assumere un altro valore. L’immagine viene considerata per quello che è, e non per quello che noi volevamo rappresentare mentalmente.
Per fare un esempio, la mia foto “Suprise!” (qui accanto) è una foto di cui non ho mai capito il successo che ha avuto… a parte dei graziosi fondoschiena di modelle in un manifesto stradale a Berlino, non ci trovo altro. Tutto si fermavano e guardavano quel poster, la mia attesa di una armonia nelle persone sotto mi ha fatto diventare accettabile l’evento, fino a farlo scadere nel banale, ma chi la guarda per la prima volta, decontestualizzata, rimane colpito dalle proporzioni e dalla curiosità dei passanti, cosa che per me è scontata. Quando rivedo quella foto, rivedo i palazzi intorno, rivedo le macchine che passano tra manifesto e passanti e tra me e passanti, rivedo la giornata nuvolosa, rivivo le sensazioni e gli stati d’animo di quel periodo, ci porto dentro piu’ di quello che è rappresentato e distolgo la mia attenzione dal suo contenuto e dal suo potenziale ironico.
Quante volte, di contro, riguardando foto di mesi indietro ci accorgiamo del valore effettivo di certi scatti scartati in una prima fase, sia perché il nostro occhio spesso anticipa i nostri gusti e il nostro divenire fotografico, sia soprattutto perché abbiamo perso memoria del contesto e delle aspettative in fase di scatto, riuscendo a valutare l’immagine da osservatore esterno, apprezzandone i contenuti per quello che sono e non per quello che volevamo fossero.
Scegliere le foto vuol dire porsi all’esterno del nostro occhio fotografico e mutuare quello del mero osservatore. Compito non facile.
Il tempo può aiutare, ma anche alcuni espedienti: se dobbiamo mostrare o consegnare più di una foto procediamo per selezioni successive, eliminando all’osso il superfluo e gli scatti ripetuti e simili di cui siamo innamorati e che non sappiamo scegliere perché ci sembrano tutti buoni, seppure con minime differenze. Descriviamo il contesto anche con immagini non necessariamente evocative, ma semplicemente di sintesi descrittiva, per far capire lo scenario, regola questa valida sempre per i lavori di reportage.
Poniamoci sempre con gli occhi di uno spettatore esterno e valutiamo le immagini per quello che sono, non per quello che vorremmo fossero, se c’era un bambino che piangeva o rideva, e non si capisce dallo scatto, quel bambino non avrà mai riso o pianto.
Limitiamo al minimo indispensabile le foto che presentiamo, un buon reportage ha un numero variabile dai 25 ai 40 scatti. Altri eventi possono contemplare un numero maggiore, ma quante volte abbiamo odiato gli amici che una volta sposati o tornati da un viaggio in paesi più o meno esotici ci hanno massacrato gli occhi con centinaia di scatti insulsi e ripetitivi, raccontandoci poi a voce cose che non si vedevano nelle foto?
Facciamoci aiutare da amici o colleghi fotografi di cui ci fidiamo, grandi fotografi hanno editor che scelgono molte delle foto per loro proprio per ovviare a questo aspetto problematico del giudizio sul nostro occhio fotografico. La scelta finale sarà sempre nostra, ma spesso abbiamo l’occasione di scoprire pregi e difetti, che condizionati a caldo dal contesto non riusciamo a percepire.
Il solo vedere le proprie foto con qualcun altro, come molti di noi avranno sperimentato, ce le mostra, forse per la prima volta, in maniera differente. Riusciamo a immedesimarci con più obiettività in uno spettatore terzo e a divenire più critici di quanto la nostra benevolenza verso di noi e le nostre aspettative fotografiche ci permetta.
Ma non sottovalutiamo anche che il guardare e riguardare a lungo le nostre foto, presi da mille dubbi generati proprio dalla fase di scelta, rischia di far diventare banali ai nostri occhi anche gli scatti più originali. Saper scegliere non è mai facile, ma può fare la differenza per un fotografo.
[Stefano Corso]