La domanda può sicuramente sembrare ingenua o banale. Capita spesso di chiedersi cosa ci attragga in una foto altrui, perché la reputiamo bella, interessante o da ricordare.
Chiedersi cosa sia una bella foto è molto simile a chiedersi cosa faccia di un film, di un libro o di una canzone una bella esperienza percettiva.
L’unica differenza è che la foto ha un impatto immediato, sia durante la sua esecuzione che nella sua fruizione. Il fotografo sceglie tra tanti istanti e tante possibili inquadrature come fermare e descrivere la realtà che ha intorno. Chi guarda una foto ha solitamente, come avviene per le opere pittoriche o scultoree, un’impressione immediata: mi piace o non mi piace.
A questo aggiungiamo che, ovviamente e per fortuna, non siamo tutti uguali. Quello che piace a me, può non piacere ad un altro e viceversa, complicando di molto l’analisi estetica e contenutistica generale riferibile alle arti o espressioni visive, tra cui è presente anche la fotografia. Il gusto e il concetto di “bellezza” rischiano di diventare un fatto per lo più statistico e diffuso, come dire è comunemente “bello” e valido quello che piace ai più. Ma anche qui si potrebbe obiettare che in fondo è bello quello che piace al singolo al di là di ogni apprezzamento condiviso. Anche perché, sorprendentemente, i critici non sempre hanno ragione nel condizionare i nostri giudizi e non è detto che li condizionino, per fortuna.
Cambiamo allora prospettiva. Cosa è una fotografia? Di solito per il fotografo rappresenta una sua personale e “sentita” interpretazione della realtà. Una realtà che si può cogliere, condizionare o costruire. Possiamo ad esempio rubare un ritratto fotografico per strada, condizionare le espressioni della persona ritratta o costruirlo a tavolino in ogni minimo dettaglio. In tutti e tre i casi il fotografo compie delle scelte. Sceglie come racchiudere quella realtà in un rettangolo o in un quadrato, quando congelarla in questo e cosa raccontare. Di solito ferma l’attimo in cui lo “sente”, in cui percepisce che quel momento è valido per sintetizzare la sua percezione emotiva, interpretativa o descrittiva di quello che ha davanti agli occhi. Più il fotografo è in empatia quello che ha intorno, o con il soggetto ripreso, più riesce a cogliere il momento per lui significativo, raccontandolo nel momento migliore … ma anche questo non è sufficiente.
Una delle scelte fondamentali che si compie in una fotografia, oltre al “momento decisivo” di Bressoniana memoria è anche quello di scegliere come raccontare, cosa inserire o non inserire nel fotogramma. Più si riescono a sintetizzare in uno scatto gli elementi importanti di quello che si vuole raccontare, ricordandosi che la percezione sensoriale e a 360 gradi l’abbiamo solo noi in quel momento, più si rende il proprio sentire visibile. Chiudere, o meglio aprire, una finestra sul nostro contesto reale per farlo divenire fotografico, vuol dire cercare di raccontare a chi vedrà il prodotto finito cosa abbiamo voluto rappresentare. Se non riesco a farlo, il messaggio fotografico rimarrà solo mio per il tempo della mia memoria del contesto, quando mi dimenticherò di questo rimarrà l’immagine per quello che è.
Raccontare vuol dire ordinare gli elementi, renderli visibili, intuibili. Rappresentarli non per quello che sono, ma per come sono percepiti: semplificare aiuta sempre il nostro “discorso” fotografico. Le scelte sono fondamentali: più “disturbo visivo” si introduce nel fotogramma più rischio di distrarre l’osservatore dal mio sentire. Più quello che voglio effettivamente raccontare è visibile, composto bene, e con eventuali elementi secondari che hanno un senso nella costruzione generale, più si riuscirà a rappresentare la nostra realtà interpretata.
Una foto meramente estetica, cromaticamente interessante, di sicuro ha un impatto visivo notevole, ma se oltre a questa immagine non riusciamo a trasmettere, far riconoscere un’emozione, raccontare una realtà che continua o finisce nella nostra fantasia, il tutto rimarrà solo un esercizio di estetica non destinato a durare.
Prendiamo invece ad esempio la foto del fotografo italiano Enzo Penna, qui pubblicata, è una foto che racconta, in cui è sicuramente possibile trovare diversi significati e diverse sensazioni. Dalla semplice malinconia di una giornata piovosa con una mano (maschile? femminile?) che pulisce il vetro di una finestra (di casa? di un bar?) ad una foto che rappresenta un abbandono, un addio o magari una attesa (mancata? che si sta esaudendo?). Di fatto è una foto dai molteplici significati che può essere riempita, nelle sue numerose variabili interpretative, dai nostri stati d’animo del momento. Sicuramente può raccontare e rimanere nella nostra memoria come un qualcosa di vissuto, possibile ed intenso. E’ semplice, diretta ed essenziale nei suoi elementi che la compongono, nulla è in più o fuori luogo. Penna ha sicuramente idea della scena, del suo contesto, di chi sia la mano che pulisce il vetro con un gesto che può assomigliare ad un saluto. Ma per noi non è importante, conta solo quello che percepiamo, vediamo nel fotogramma, non ci servono spiegazioni e forse neanche il titolo “Adieu”, scelta interpretativa personale dell’autore, per entrare dentro la scena.
Una bella foto “accade” quando riusciamo a raccontare ad un pubblico più o meno vasto una parte di noi condivisibile. Il singolo attimo rapito alla realtà diventa solo l’inizio, l’innesco di una storia visiva che racconta a noi e ad altri un qualcosa che dura oltre il singolo sguardo alla fotografia. Si incardina nel nostro inconscio raccontandoci mondi presenti, passati e futuri nelle loro possibili evoluzioni. Guardiamo un’immagine e scopriamo qualcosa di noi, qualcosa della storia rappresentata, immaginiamo possibili sviluppi, ci perdiamo dentro prima di tutto con il cuore che con gli occhi. Capita spesso di interrogare le persone sul significato di una foto: più le interpretazioni sono differenti e fantasiose, anche al di là delle intenzioni dell’autore, più è possibile che la foto possa essere considerata interessante. Se oltre all’impatto visivo si trova qualcosa di nostro e personale la foto ci può appartiene, anche se scattata da altri. Se non si comprende quello che si vede, se lo si trova banale o già visto, probabilmente non saremo invece portati a considerarlo bello od originale.
La foto di un fiore può semplicemente rappresentare un fiore o raccontare qualcosa di noi rendendolo ancora più “bello” come nella foto di André Kertész, “Melancholic Tulip” del 1939… cercatela.
(Articolo pubblicato su Fermo Immagine – Rainews il 10 dicembre 2013)